“Trecentocinquanta” di Giorgio Nebbia

Gli eventi di questo 2010 confermano l’esistenza di mutamenti climatici
dovuti al riscaldamento planetario. Devastanti alluvioni nell’Europa
centrale; più a Oriente, nell’estate una eccezionale siccità ha provocato
incendi di boschi e di giacimenti di torba in Russia; ancora più a Oriente,
alluvioni nell’Asia meridionale e in Cina, per non parlare di questo
autunno. Piogge intense, alluvioni e siccità si sono già verificati nei
decenni e secoli passati, ma mai su una scala così vasta e con così grande
frequenza, proprio come le previsioni avevano indicato.

Il fenomeno del riscaldamento globale si può schematizzare come dovuto all’aumento
della concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera; di conseguenza
aumenta la frazione del calore solare che resta “intrappolata” dentro l’atmosfera,
ciò che fa aumentare la temperatura media della superficie terrestre nel suo
complesso. Ne derivano cambiamenti nella circolazione delle acque oceaniche
e nell’intensità e localizzazione delle piogge sui continenti. Bastano
relativamente piccole variazioni per far aumentare le piogge in alcune zone
della Terra o per rendere aride altre zone. Pochi numeri aiutano a
comprendere tali fenomeni; per tutto l’Ottocento e per la prima parte del
Novecento l’atmosfera conteneva circa 2200 miliardi di tonnellate di
anidride carbonica, corrispondenti ad una concentrazione di circa 280 ppm
(parti in volume di anidride carbonica per milione di parti dei gas totali
dell’atmosfera).

In quei decenni l’industrializzazione era già cominciata in Europa e nel
Nord America con crescente combustione di carbone e di legna e con la
diffusione di numerose fabbriche; queste attività immettevano nell’atmosfera
anidride carbonica che però veniva assorbita, più o meno nella stessa
quantità generata ogni anno dalle attività umane, da parte della
vegetazione, soprattutto delle grandi foreste, e da parte degli oceani nelle
cui acque l’anidride carbonica è ben solubile. Foreste e oceani, insomma,
erano capaci di depurare l’atmosfera dai gas immessi dalle attività umane.

La svolta si è avuta a partire dalla metà del Novecento con due fenomeni
concomitanti: è aumentata la quantità dell’anidride carbonica immessa ogni
anno nell’atmosfera in seguito alla combustione di crescenti quantità di
carbone, petrolio e gas naturale e alla crescente produzione di cemento, che
pure libera anidride carbonica dalla scomposizione delle pietre calcari, e,
nello stesso tempo, è diminuita la superficie e la massa delle foreste e del
verde, tagliati e bruciati, anche con incendi intenzionali, per recuperare
spazio per pascoli e coltivazioni intensive, per ricavarne legname da
costruzione e da carta, per nuovi spazi da edificare.

Mentre è relativamente costante la capacità degli oceani di “togliere”
anidride carbonica dall’atmosfera (circa cinque miliardi di tonnellate all’anno),
è andata aumentando (da 20 a 40 miliardi di tonnellate all’anno, dal 1950 al
2010), la quantità di anidride carbonica immessa nell’atmosfera dai
combustibili fossili e dalle attività “economiche” di una popolazione in
aumento e da un crescente livello di consumi, ed è diminuita, da circa otto
a cinque miliardi di tonnellate all’anno, la quantità dell’anidride
carbonica che la biomassa vegetale è stata capace di portare via dall’atmosfera.

Questo insieme di fenomeni ha fatto aumentare, in mezzo secolo, la quantità
dell’anidride carbonica presente nell’atmosfera (da circa 2400 a 3000
miliardi di tonnellate) e la sua concentrazione da circa 320 a 390 ppm. Le
conferenze internazionali che si succedono ogni anno (la prossima sarà in
dicembre a Cancun, nel Messico) danno per scontato che tale concentrazione
possa arrivare a 450 ppm nei prossimi decenni e poi aumentare ancora: un
aumento di concentrazione, e di temperatura globale, insostenibile.

Uno dei movimenti ambientalisti che si sta diffondendo dagli Stati Uniti (il
paese più ricco ma anche più attento alla fragilità della propria opulenza)
indica in 350 ppm il livello di anidride carbonica a cui si deve tendere per
attenuare le conseguenze catastrofiche dei mutamenti climatici. Per
raggiungere tale obiettivo la quantità di anidride carbonica totale nell’atmosfera
dovrebbe diminuire da 3000 a 2600 miliardi di tonnellate. Un obiettivo che
richiederebbero almeno un secolo, durante il quale (1) dovrebbe gradualmente
diminuire il consumo di combustibili fossili e di energia; (2) dovrebbe
rallentare la distruzione dei boschi esistenti fermando incendi e diminuendo
l’estrazione di legname commerciale e le superfici coltivate e dei pascoli e
allevamenti da carne e rallentando le attività minerarie che oggi si
estendono in terre finora occupate dalle foreste; (3) dovrebbe aumentare la
biomassa vegetale, piantando alberi e verde in qualsiasi ritaglio utile
della superficie terrestre.

Conosco bene le obiezioni; si avrebbe un rallentamento dei consumi e quindi
“della civiltà”. Ma anche se continua il riscaldamento globale si va
incontro a un rallentamento dell’economia e “della civiltà”, lento, quasi
inavvertibile fino a quando le conseguenze non assumono carattere
catastrofico come quest’estate. I danni dei mutamenti climatici, infatti,
comportano, anche se non ce ne accorgiamo, distruzione di ricchezza
monetaria; ne sono colpiti paesi ricchi (pensiamo alla Russia e alla
Germania oggi) e paesi poveri e poverissimi come, oggi, il Pakistan e certe
zone della Cina. Pensiamo invece alla ricchezza monetaria che sarebbe messa
in moto dalla diffusione di processi produttivi che consumano meno energia,
meno materiali, che usano meno legname, dai prodotti ottenibili dalle nuove
foreste, e ai vantaggi che ne verrebbero sia ai paesi ricchi, sia, ancora di
più, a quelli poveri.

Probabilmente la ricchezza complessiva aumenterebbe perché tanti paesi
sarebbero alluvionati di meno e meno esposti alla siccità, e aumenterebbe la
vegetazione dei continenti; forse la ricchezza sarebbe distribuita
diversamente fra i vari paesi. Siamo sicuri di perderci in questa
prospettiva ?

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